Dimenticanze Selezionate

Ve la ricordate la ragazza del post sulle Dimenticanze Selettive?

C’è un motivo se ho scritto quel post. No, niente di suino o di pertinente ai suoi capezzoli; è un motivo più onirico, nel senso più stretto del termine. Di recente l’ho sognata parecchio. O meglio, più che lei – presente nei sogni, ma in modo piuttosto marginale – ho sognato sua madre. Che conoscevo.

Idealizzata, come spesso accade nei sogni. Luminosa, quasi ammantata di luce. Mi ha parlato tanto e detto cose belle e tranquillizzanti, e fatto anche qualche rimbrotto. Come una persona che mi voleva bene.

Coppa Vuota, ricordate? Vado sul blog della ex intenzionato a dirglielo, perchè non è un pensiero che mi appartiene: appartiene a lei ed è giusto che lo abbia. Con vivo dispiacere ho scoperto che questa signora non è più con noi. E allora gliel’ho detto. Semplicemente. Due righe, tante bastavano.

Non ha nemmeno approvato il post. Dimenticanza selezionata. Alle volte ci si dimentica che la distanza, intesa proprio tra un punto e l’altro, è identica sia che la si misuri dal punto A sia che la si misuri dal punto B.

Peccato?

Dimenticanze Selettive

Mi è capitato in questi giorni di vedere un video su youtube di una persona che mi è stata davvero cara. Ovviamente una delle mie pazze, intendiamoci. Ma una pazza di quelle che impiega parecchio tempo a palesarsi, e nel frattempo ti innamori.

Filmato, canta. La vedo cantare, la sento cantare, ok, passiamo oltre.

Altro filmato. Primo piano sul viso. “Cacchio come è bella”, penso, rapito dal mio solito sentimentalismo. Poi parla.

Vi giuro. E’ stato il panico. Non riconoscevo più la sua voce. Come se la sentissi per la prima volta. Una delle persone più care della mia vita, e mi sono reso conto che avevo completamente dimenticato la sua voce. Una delle cose più belle che aveva.

Il che è curioso, perché se mi perdonate la deriva suina, sono ancora in grado di disegnare nei minimi dettagli entrambi i suoi capezzoli. Ma non ricordavo più che voce avesse.

In matematica usiamo una lettera greca per delineare la distanza. Si chiama Delta. E forse forse non è un caso.

Voi, come dimenticate?

Non voglio arrivare secondo (premessa)

…due righe per chiarificare il perchè al commento di Eka nel post qui sotto mi sono inorridito. No, inorridito è riduttivo, mi sono proprio spaventato a rendermi conto che ci sono donne “la fuori” che hanno questa linea di pensiero.

Storiella numero uno: Mario e Luisa Rossi (nomi di fantasia), una coppia di carissimi amici miei. La coppia perfetta: conosciuti a diciotto anni, entrambi si sono fatti le loro esperienze e poi si sono messi insieme. Una vita di coppia meravigliosa, una intesa sessuale meravigliosa (e si sono concessi pure qualche emozione decisamente “fuori dall’ordinario”, ecco). Metto “vita di coppia” e “intesa sessuale” uno accanto all’altro, perchè sono due cose strettamente collegate a mio avviso. La vita di coppia e l’intesa sessuale sono due organismi simbiotici: si rafforzano stando vicino, lentamente muoiono se presi separati.

Iniziano i figli. Il primo, il secondo. Rivedo Mario e gli chiedo come va: “bene… abbiamo meno tempo per noi, ovviamente i figli ci rapiscono, ma compensiamo con la qualità del tempo che passiamo insieme… e fidati che appena abbiamo due minuti per noi ci massacriamo!”. Ribecco un giorno Luisa in chat… “ciao sa30a, tutto bene… non vedo l’ora di tornare a casa, che oggi i bimbi son con mia madre e appena agguanto Mario lo strizzo come un asciugamano bagnato”.

Arriva il terzo e… boom. Risento Mario che mi chiede “ma insomma, come va? hai situazioni interessanti per le mani?”. Strabuzzo gli occhi e gli chiedo se c’è qualcosa che non va e la risposta è lapidaria: “Va male. Da quando è arrivato l’ultimo è un dramma… lei non mi cerca più, e ormai è un anno e mezzo. Mi sento un estraneo in casa mia e con mia moglie”.

Storiella numero due: siamo nel 1976, e un molto giovane – eppur divinamente saggio – sa30a sta ingaggiando una battaglia impari con un battaglione di contrazioni e uno staff medico per provare a restare nell’utero di sua madre. “Vieni fuori!”“Col cazzo, qui mi fregate, cinque minuti per uscire e poi settant’anni per provare a rientrarci! E magari non ci riesco neanche! Voglio garanzie scritte!”. A fare le spese della pugna è il campo di battaglia, ossia sua madre, che rischia concretamente di andarsene al Creatore, e sa30a che nonostante l’istinto battagliero manca di tutti gli armamenti necessari (tipo polmoni decenti, muscoli, ossa forti) per condurre la battaglia ma non cede di un centimetro. Un generale medico esce e chiede al padre di sa30a:

“Senta, qui si mette davvero male. O salvo la madre, o salvo il bambino. Mi dica lei…”
“Salvi mia moglie. Il bimbo lo rifaccio, la moglie no.”

Ci siamo fin qui? non vi voglio tediare oltre e fare un post lungo. La chiosa alle storie e il mio punto di vista arriverà a stretto giro di posta…

“What if”

Faccio seguito a un post del mai troppo osannato Attila, per concedermi una piccola divagazione nel passato. Per chi non conosce il mondo dei fumetti (e io sono tra questi, solo che conosco un sacco di appassionati fumettari) i “what if” sono delle serie di fumetti “alternative” in cui si prova a fantasticare cosa sarebbe stata la trama se fosse successo qualcosa di alternativo rispetto a ciò che è effettivamente accaduto nella fiction. Per chi invece non seguisse il mondo dei fumetti, posso dar sfoggio della mia vanagloria culturare proponendo un altro esempio di “what if”: un romanzo dedicato a cosa sarebbe stata l’Italia se il fascismo non fosse caduto e non avessimo perso la seconda guerra mondiale.

Chiusa la necessaria premessa… a voi è mai capitato di pensare a cosa sareste stati se nella vita alcune cose fossero state diverse?

Attila parla del coniglio che ti trascina fuori dalla camera prima che ti ci cada il motore d’aereo dentro (con arguto riferimento al film Donnie Darko), e in effetti i “what if” sono esattamente questo. Valvole di salvezza, opportunità per fare degli excursus e delle fantasie quando la vita ti àncora alla realtà in modo troppo brutale. Soprattutto, sono modi per fantasticare in un mondo privo di errori personali, di cose che in realtà non hanno funzionato, di senno di poi. Sono anche un modo per rassicurarsi su le nostre potenzialità, per rifare un controllo – nei nostri sogni a mente libera – di tutto ciò che siamo o saremmo stati in grado di fare e per un motivo o l’altro abbiamo scelto di non fare.

Con un unico, inquietante parallelismo: in donnie darko, alla fine della fiera, il motore d’aereo sulla testa cade davvero.  Coniglietto o non coniglietto, non c’è storia che tenga e la realtà vince sempre. Anche se Donnie Darko ride quando cade quel motore, e ride perchè almeno ha avuto di che ridere. Il che non è per niente poco.

Cosa sarebbe stato di me se fossi stato ancora con Alpha? un marito felice o una parodia bipede di un cesto di lumache?

E se fossi restato ancora con Beta? un padre separato alle prese con un assegno di mantenimento più grande di lui, o un uomo felicemente sistemato in un mondo placido e tranquillo?

E se fossi restato nell’esercito?

E se…? e se…?

Ma soprattutto, sarei quello che sono, se non avessi fatto tutte le esperienze – spesso negative – che ho fatto? si dice che un uomo è la somma delle proprie esperienze e dei propri errori. Sarei stato felice comunque, avendo meno spessore, e meno cartilagine attorno al cuore? è vero, come dicono gli inglesi, che ignorance is bliss, l’ignoranza è un bene?

Cosa ne pensate, miei ventitrè lettori?

Me l’ha detto la mamma!

Ve ne parlo un po’ perchè l’avevo promesso a Giada, un po’ per far da contraltare alla teoria dell’attacco preventivo, ma Beta meritava un piccolo spazio in questo ultimo racconto della mia vita.

Beta, nella nomenclatura di questo blog, è stata la seconda storia importante della mia vita. Tre anni molto belli, dai 23 ai 26 grossomodo, fatti con una ragazza che in realtà era donna. Anzi, Donna. Donna con la maiuscola per il suo carattere dolce, perchè non mi vedeva tutto, perchè era femminile in ogni momento, perchè sapeva sempre prendermi per il verso giusto (e non è facile), donna per una miriade di motivi che sarebbe lungo elencare. Donna. In grado di rendermi felice. Tanto chiedo ad una donna, tanto mi può bastare nella vita.

Beta aveva due grossi difetti, anzi, tre. L’assoluta mancanza di voglia di finire gli studi, l’assoluta mancanza di voglia di lavorare, e soprattutto la di lei madre, casalinga full time con una concezione della vita assai retrò. Per il resto, aveva (e ha) un padre che è una meraviglia di uomo, e andava d’accordo con la mia famiglia (che a quei tempi esisteva ancora).

Il problema della di lei madre, con cui vigeva un rapporto di amore-odio, si sintetizzava in uscite mirabolanti del tipo “senti beta, siamo stati insieme il pomeriggio, sono le sette, passeggiamo ancora un po’ e poi ceniamo?” e lei “no, devo andare a casa a stendere i calzini”. In realtà DOVEVA vedere sua madre e farsi vedere, foss’anco per mezz’ora (bastava insistere e lo ammetteva). Un atteggiamento che avevo difficoltà a capire (e a 24 anni me ne mancava anche la voglia), ma tant’è, stavo bene, mi rendeva felice (l’ho già detto, lo so) e poi nonostante il mio caratteraccio sono più accomodante di quanto sembri.

Anno domini 2001. Mi laureo. Mi libero dei miei obblighi con lo Stato (a quei tempi erano davvero obblighi!), trovo un lavoro serio nonchè discretamente retribuito e… ve l’ho detto, vero, che sono un “family man”? che ho sempre sognato costruirmi una famiglia mia?

“Senti, Beta, ho una laurea, un lavoro, prospettive, che ne pensi se andiamo a stare insieme e vediamo un po’ di vedere se non ci si pianta coltellate nella pancia prima di fare il grande passo?”

“eh no eh!”

Read More

Rivedersi in occhi altrui

Girottolando per la rete sono capitato in questo articolo a firma di Giada Zichittella sul suo blog “vita di coppia“, e mi è venuto in mente un parallelismo forte, quello con i “five stages of grief” della psicologa Elisabeth Kübler Ross, malamente tradotto con “le cinque fasi di elaborazione del lutto” dal solito “enciclopedico” wikipediano di turno.

Mi sono rivisto a quasi un anno fa, fresco “di lutto”, perennemente con gli occhi sbarrati in cerca di una spiegazione che non arrivava, e non arrivava perchè non c’era. E allora passavo dallo sgomento all’incredulità, al negare la possibilità di quanto fosse successo fino al pensare che fosse solo una fase passeggera e che tutto si sarebbe sistemato. Passavo dall’essere stupito a negare la possibilità di quanto mi era successo, perchè che diamine, sono un bravo ragazzo che vuol metter su famiglia, e ai bravi ragazzi queste cose non succedono!

Invece quando una donna si rompe i maroni di te non sta a guardare se sei un family man o l’ultimo dei tossicomani. La chiude, con una facilità che ha del disarmante (e innesca i famosi cinque stadi di elaborazione), e il compito di raccogliere i cocci spetta a chi resta indietro. Raccoglierli, e contarli già che ci siamo. Che non si sa mai che si portino via anche qualche pezzo di cuore.

Giada forse è qualche mese indietro rispetto a me, che ho fatto (e faccio?) il valzer tra i vari cinque stadi e ora provo a dirigermi verso la Montagna dell’Accettazione, consapevole che la scalata è tutt’altro che banale. Guardo Giada, che profuma di bella persona lontano un miglio, e il sorriso mi muore addosso.

Sarò una coppa vuota, lei l’ha letto, e nonostante la tempesta che le infuria intorno l’ha anche capito. E’ quello che potevo darti, e sono felice di esserci riuscito, anche se non riesco ancora a sorridere.