Fish – “A Gentleman’s Excuse Me” e le pornoromantiche

Voi pensavate che vi avessi parlato di pornoromantiche così, per caso, giustappunto perchè l’ennesima pazza mi aveva danzato la rumba sulle gonadi. Invece no, ve le ho introdotte per avere una scusa per farvi sentire questo splendido pezzo e “leggerlo” assieme a voi.

Dico “Fish” e probabilmente mi risponderete “Chi?”, allora proverò a dirvi “Marillion” e continuerete, molto probabilmente, a rispondere “Chiii?”. Non andrò a tediarvi oltre raccontandovi la storia di questo personaggio, classe ’58, costellata da grandi lavori musicali, splendidi testi e una serie di delusioni che lo rendono membro onorario della casta dei single perenni.

Per una volta tanto vi appioppo da ascoltare un pezzo orecchiabile, qualcosa che possa piacere anche a chi tra di voi ha orecchie meno allenate a sonorità più spigolose. In “A Gentleman’s Excuse Me” il buon Fish racconta il suo incontro/scontro/resa con un esemplare da manuale da pornoromantica.

“Conservi ancora i fiori di carta nel cassetto avvolti nel tuo pizzo belga, e li tiri fuori ogni anno, giustappunto per vedere i colori che sbiadiscono? Credi ancora nelle favole, con i bastioni di castelli luccicanti, al riparo dai draghi che giacciono sotto la collina? o sei ancora una principessa russa, salvata da un ballerino zingaro, e racconti sempre questa storia a chiunque ti voglia ascoltare?”. Le tinte sono forti e caricaturali, e dipingono un ritratto financo infantile, ma sfido chiunque a non vedere la verità nascosta dietro le iperboli: di un mondo romanzato, in cui tutto deve essere o un bel ricordo che si ammira sbiadire di anno in anno o un parto della fantasia, in cui tutto è troppo bello, troppo luccicoso, troppo importante per essere vero.

“Vivi una vita di fantasie, un’agenda di finzioni romantiche. Come puoi non vedere come è difficile per me, come puoi non capire quello che sto provando a dirti?” chiude il ritratto, prima della dolcissima dichiarazione di resa: “è un ‘mi scusi’ di un gentiluomo, quindi mi faccio da parte. Puoi far entrare nella tua testolina che sono stanco di danzare? Per ogni passo avanti ne facciamo due indietro, riesci a far entrare nella tua testa che sono stanco di danzare?”. E’ stanchezza, stanchezza profonda per non essere riuscito ad adattarsi a standard troppo elevati, e l’uscita di scena è da vero gentiluomo, che fa “a step to the side”, un passo laterale, e si mette da parte.

Ma anche andandosene da gentiluomo, non può mancare un messaggio alla propria amata, quasi una speranza mal espressa di una improbabile maturazione. “So che ami i valzer vecchio stile, e corteggi la tua immagine riflessa mentre scivoli lungo la pista da ballo. Ma se ti dicessi che la musica è finita, mi ascolteresti? e capiresti che la sala da ballo è vuota, e che in quel luogo non c’è realmente qualcuno?”. Non manca anche una critica più diretta e meno equivocabile: “Credi ancora in Babbo Natale, o che ci sia un milionario in cerca della porta di casa tua, con le chiavi di una vita che non comprenderesti mai davvero?”

Ma Fish sa bene che contro il pornoromanticismo estremo non c’è lotta, e non c’è guarigione che abbia fonte non endogena. E allora se ne va, con dolcezza e senza sbattere la porta, ma chiudendola comunque molto bene.  “Tutto quello che ho da offrire è l’amore che ho, ed è dato liberamente. Capirai il suo valore quando comprenderai ciò che ho provato a dirti”. Attenti bene, è ancora lui che si mette in discussione, è lui che prova a parlare e non ci riesce. Non è lei che non capisce.

L’addio, purtuttavia, è inequivocabile: “E’ il ‘mi scusi” di un gentiluomo, e farò un passo per mettermi da parte. Non riesci a fare entrare nella tua testolina che sono stanco di danzare? Che da questo passo in avanti, non ci sarà mai più possibilità di tornare indietro? Non riesci a far entrare nella tua testolina che sono stanco di danzare? Ora abbiamo finito di danzare.

Questo, signore, è Fish. E questa è una delle più belle canzoni di amore impossibile mai sentite.

Spocks’s Beard – “The distance to the sun” e il tendere perpetuo

Andiamo con una nuova escursione musicale nel territorio del metal prog. Il metal “da musicisti per musicisti”, come lo definisco spesso, perchè la sua leziosità e la sua ricercatezza estrema – che cade spesso nel barocchismo – lo rende un genere che solo chi si avvicina ad uno strumento riesce ad apprezzare.

Gli spock’s beard sono un gruppo prog metal statunitense, nato nella prima metà degli anni ’90, caratterizzato da quella visione tipicamente “yankee” del metal prog, fatta di linee relativamente semplici per il genere e un uso marcato delle voci e dei cori, nei quali sono maestri.

Bando alle ciance e passiamo alla musica:

…e la prima, minimorale del pezzo: Quanti di voi avendo ascoltato i primi quindici secondi hanno detto “ehi, ma qui è roba latineggiante alla gipsy king!“. Ecco, riflettete, riflettete, che se liquidate un pezzo da cinque minuti in quindici secondi… avete il grilletto del giudizio troppo facile. Pensate al tempo che impiegate per catalogare una persona, e chiedetevi se non è troppo poco.

“The Distance to the sun” tratta un tema molto semplice: l’insoddisfazione perenne, il tendere perpetuo a un qualcosa di lontano, e applica il tema all’insoddisfazione e alla distanza che crea nei rapporti interpersonali.

Non c’è pace / qui nella mia testa / non c’è modo di vedere / che siamo nati ciechi / verso un luogo e un tempo / in cui potremo sentirci / intimamente uniti / non possiamo sempre vederlo /con i nostri occhi” tocca alla prima strofa evidenziare il tranello nel quale spesso cadiamo. Cadiamo, si, e ci siamo caduti tutti quanti: il pensare che esista sempre uno stato nirvanico di compenetrazione con le persone, solo che non siamo in grado di vederlo o di sentirlo perchè siamo ciechi. E’ un tranello che seduce con la sua umiltà, perchè la “colpa” di non aver trovato questo bengodi affettivo viene data a noi e noi soltanto, ma sempre di tranello si tratta.

Non è un caso che sia il primo refrain a dirci “ma c’è un mondo distante da quello che conosciamo, c’è un mondo che i nostri occhi non mostreranno mai, in cui possiamo essere come una cosa sola“. Siamo caduti nel tranello a piedi uniti, poco da fare… e quasi stona l’aggiungere “e nonostante tutto, più lontani della distanza fino al sole“. Perchè non siamo in grado di accorcene, siamo già persi, senza saperlo.

Forse con troppo amore per la sintesi arriva l’amara conclusione: “ma non serve a niente / non vincerai mai / ti ricacceranno fuori a pedate“, come se ci fosse qualcuno, un “cattivo a priori”, che ci caccia fuori dal nirvana ogni volta che ci arriviamo. L’ultimo stadio delle scuse, pensare che ci sia sempre un grande fratello responsabile dei nostri insuccessi. Non è vero, perchè “non sarai mai soddisfatto / ciò che vuoi è solo il cambiamento / stai giocando una partita che non puoi vincere“.

Eccoci. Caduti, e sporchi, e di fronte ad uno specchio implacabile che ci dice che abbiamo sbagliato. E continuiamo ancora a crederci, perchè “una metà di noi grida al cielo / e una volta che ci è arrivata si chiede come mai ci abbiamo messo tanto / e una volta che siamo arrivati, sapremo cosa siamo diventati“.

 

Non c’è salvezza, nonostante i bei toni positivi del brano. La ricerca di un rapporto “perfetto”, di compenetrazione assoluta, ci lascia lontani da noi stessi, insoddisfatti, estraniati. Ed in perenne ricerca di un qualcosa che non c’è, perdiamo di vista la realtà – incluse le persone che ci girano intorno.

Lacrimosa – “Feuer” e la rabbia cieca

Riprendiamo le trasmissioni dopo un hiatus un po’ troppo lungo (scusate, scusate) per disquisire di una emozione di cui volevo parlarvi da un po’, e per tirare finalmente fuori – dopo tanta razionalità – un po’ di visceri.

Rabbia. Ma non la rabbia di quando vi vandalizzano la tanto amata vettura, o di quando qualcosa va storto sul lavoro. Una rabbia profonda, emotiva, viscerale e vissuta. La rabbia vera. Quella distruttiva.

Mi è capitato – spesso, troppo spesso – di sentirmi dire “ma tu sei arrabbiato con me perchè…” e guardare il mio interlocutore con la famigerata “faccia a punto interrogativo” che recita un inequivocabile “ma anche no”. Perchè la rabbia per me è sentimento sacrosanto, è una emozione devastante e ha una dignità fortissima. Come l’amore, la rabbia è per i meritevoli. Si contano sulle dita di una mano (e di E.T., per giunta)  le occasioni in cui mi sono sentito davvero pervaso dalla rabbia, e per fortuna di tutti sono momenti assai lontani nel tempo.

I Lacrimosa sono un duo nella musica come nella vita. Tilo Wolff e sua moglie Anne Nurmi hanno spaziato dal gotico d’annata dei primi anni novanta, lento, oppressivo e musicalmente semplice fino alla musica se non classica di sicuro “colta” dei primi anni del terzo millennio. Utilizzando una tavolozza sonora e tematica di straordinaria varietà hanno veicolato di volta in volta messaggi diversi, a partire dalle tematiche più dark e depressive fino alla luce abbagliante di un rapporto col Divino forte e vissuto in maniera personalissima. In mezzo un vocabolario di straordinaria varietà, che comprende rock, goth, dark-wave, ambient, musica sinfonica, il tutto calato in un substrato di heavy metal che non è mai legame o stilema a cui conformarsi, ma strumento nelle mani di un compositore che ha dalla sua il tocco del Genio.

Vi avverto: le tinte di questo brano sono forti, aspre e molto dure. Non tutti hanno un orecchio abbastanza allenato a certe sonorità, per cui se le musiche troppo pesanti vi spaventano, non ci rimarrò male se passate oltre.

Feuer, “Fuoco”,  è come la rabbia: puro, indiluito, martellante, si autoalimenta in un crescendo che chiama un unico, drammatico epilogo. L’unico epilogo possibile per la rabbia: lasciarla uscire, sfogarsi, massacrarne la causa senza misericordia, senza trattenersi, con efferatezza e crudeltà. A rimarcare quanto martellante e costante è la rabbia è deputato un fraseggio di archi, ossessivo, meccanico, usato quasi come un “pedale” (tecnicamente non lo è, mi perdonino i conservatoristi per la licenza poetica), che non ci abbandona per l’intera traccia; brace di un sentimento vivo su cui si innestano i momenti di rabbia urlata, e i momenti di rabbia gelida.

Chi di voi ha sperimentato la rabbia, quella autentica, si è già riconosciuto nel quadro tracciato dall’archiettura del pezzo: un ribollire di sottofondo su cui si innestano momenti di meditazione furibonda ad altri di violenza pura. Nella meditazione tocca alla voce di Tilo, profonda, solo apparentemente tranquilla, rimarcare momenti che tutti noi abbiamo vissuto e pensato almeno una volta. “Questa è tua prima e la tua ultima vittoria […] ma il tempo è una puttana – si concede in fretta, e già a lungo mi sono saziato dell’odio per te” è un ritratto abbastanza fedele del momento prima dell’eruzione, il momento in cui ci si rende conto che la rabbia ci sta divorando ed è il momento di tirarla fuori, e arriva il primo assalto.

“Questo è il mio tempo di bruciare, questo è il mio tempo di bruciarti. Un giorno sarai in questo luogo buio, io ti darò fuoco e poi ti ascolterò gridare”. Un anatema tanto semplice quanto crudele, ripetuto come una filastrocca dalla voce di un bambino – perchè solo i bambini hanno il concetto di ferocia non mediata dalla civiltà – e fatto proprio da un adulto, gridato con la voce più potente di Tilo. Uno stridente parallelismo che ha un unico messaggio: si sono mollati i freni, ci si è lasciati andare e la rabbia è sbocciata, come crisalide, nella farfalla della ferocia.

A nulla valgono le giustificazioni della seconda meditazione, quasi un rigurgito di civiltà: “Concedo la compassione solo ai meritevoli”, e quello struggente ma vano tentativo di demolizione dell’oggetto della nostra rabbia, paragonato non a un bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno, ma a un segno d’acqua dove il bicchiere è stato posato un tempo. Come se non meritasse tanto. Purtroppo non c’è niente da fare, non c’è giustificazione, non c’è misericordia. Bisogna completare l’opera, e il secondo assalto è più brutale del primo, con una doppia cassa e un rullante martellante a tratteggiare un ritratto di una ferocia pura, istintiva, primordiale. Un attacco quasi fisico alle orecchie dell’ascoltatore, il ritratto di una distruzione: “La tua ignoranza, la tua vanità, la tua saccenteria, implodono. Un giorno sarai in questo luogo buio, io ti darò fuoco e ti ascolterò gridare”. Una dichiarazione di odio da fare impallidire, gridata in un tedesco quanto mai adatto.

E solo allora, dopo colpi e colpi, il nostro “pedale” torna a farsi sentire, e lentamente muore, come la nostra rabbia, compagna di una notte.

Questi, signori, sono i Lacrimosa. Questa è “Feuer”. Questa è rabbia. Pura.

Ringrazio pubblicamente MetalGermania per la traduzione, che non ripubblico integralmente in quanto opera loro. Trovate da loro tutti i testi dei Lacrimosa, alcuni dei quali sono vere opere d’arte.

Musica vissuta

Interrompiamo le narrazioni per una piccolissima parentesi di stampo musicale. Forse non lo sapete (anche perchè, riflettendoci, se non ve lo dico è difficile che lo indoviniate da soli) ma ho un trascorso da musicista. Pianoforte, un accenno di chitarra classica, ma soprattutto basso elettrico e tanta, tanta composizione di musica e di testi: era quello il mio pane fino a che, come con una donna, anche con la musica mi sono separato.

Quando un rapporto si è rotto te ne rendi conto e lo chiudi, ed è stato così anche per me e la musica: una storia finita, e quel leggero sentimento, quel “delicato struggersi”, ogni volta che la senti o la rivedi. Senza rancori, con serenità, ma sai che la musica è stata una parte importante della tua vita che ora non c’è più.

Quando nel luglio dell’anno scorso, in piena crisi da separazione, il mio caro amico Walter mi ha chiesto “ehi, senti un po’ singletrentanni, tu che con le parole te la cavi benino, perchè non mi scrivi i testi? mi sono ridato alla musica…” per me è stato un po’ una sfida: rimettermi a scrivere, riapprocciarmi alla musica seppur da un’angolazione diversa, e soprattutto tirare fuori tante cose che avevo dentro in un periodo travagliato della mia vita. Ho accettato, non senza ansia, ma sicuramente non senza gioia. Piccolo inciso: il mio rimettermi a scriver testi è uno dei motivi per cui questo blog ha tardato la nascita.

Ve lo dico subito: l‘happy ending non c’è. Non ha funzionato: non ha funzionato perchè al primo ascolto, con i suoi amici, il commento dominante è stato “che è ‘sta roba da depressi?!?”. Indelicato, se vogliamo, ma vero: non stavo scrivendo precisamente cose allegre. Cosa pretendete da uno appena separato dopo otto anni di storia, con la vita  a brandelli, e un rapporto col proprio corpo completamente da ricostruire? le rime cuore-amore? no, ragazzi, non fa per me. Sarebbero arrivate altre cose, sarebbe arrivato un intero percorso, ma ci voleva tempo, pazienza e una volontà che non potevo di certo chiedere a nessuno se non a me stesso.

Morale… Walter ha preso la sua strada, si è scoperto paroliere e ha realizzato i suoi testi. I testi del suo disco sono tutti suoi eccetto uno, che è piaciuto al produttore e si è salvato, e lo trovate assieme alle altre canzoni nel suo disco: si intitola “come foglia nel vento”, e se pur non si può definire un testo allegro è comunque pervaso da un seme di speranza in sottofondo, di rassegnazione, di accettazione karmica di storie che iniziano, finiscono, nascono e muoiono trasportate dal vento dell’autunno. A me quel testo piace, piace molto (anche se il mio preferito è un altro, e non è detto che non ve lo faccia leggere prima o poi) e ci tenevo che l’aveste anche voi.

Trovate il sito di myspace di Walter qui, e vi suggerisco un ascolto. Io sono felice, felice innanzitutto per lui, e felice di essermi riaffaccito alla porta della Musica con un sorriso, e di averla chiusa di nuovo senza soffrire. La penserò ogni tanto, come tutte le donne che sono passate nella mia vita, ma non soffrirò perchè non c’è più.

Lao Tzu e la Coppa Vuota d’Oriente

Il cielo è eterno, e la terra dura a lungo
e quale è il segreto della loro persistenza?
Non è forse perchè non vivono per loro stessi
che persistono così a lungo?

Per questo il saggio sceglie di essere l’ultimo
e nell’essere ultimo, si pone alla guida di sè
Sceglie di negare sè stesso
e nel negare si afferma
Nell’abbandonare sè stesso
trova il suo scopo ultimo

 

Anathema – “Closer” e i sogni limita(n)ti

Gli Anathema nascono come gruppo heavy metal, di una particolare sottocorrente chiamata “doom”, caratterizzata da suoni semplici, ripetitivi, melodici, pesanti ed oppressivi. Un punto di contatto tra gotico e oppressivo, il “romanico architettonico” del metal. Gli Anathema, come i Moonspell già citati, fanno bei dischi metal, mediocri dischi metal, e come al solito diventano grandiosi appena smettono di fare del metal.

“A Natural Disaster” del 2003 segna la maturazione dal doom all’emozionale, con forti capacità di introspezione sia musicali che liriche, e passaggio a texture sonore che sono un gradevole misto tra analogico e digitale, con una grande voglia di sperimentare in tutte le direzioni, pur mantenendo l’orientamento al se, all’oppressione del pensiero verso sè stessi, alla claustrofobia che ha caratterizzato gli anni della loro giovinezza.

Vi devo l’ascolto grazie alla telefonata di una bellissima persona – che essendo donna, ha prudentemente frapposto un migliaio di chilometri tra noi due, così, per non saper nè leggere nè scrivere – che stasera, al telefono, mi illumina con una frase che nella sua banalità mi ha colpito.

“Prendila come viene, singleatrentanni, altrimenti il peso dei tuoi sogni, del tuo guardare verso il futuro, sarà talmente forte che ti troverai schiacciato, in preda allo stress, e svuotato”.

Ha ragione. Da vendere.

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Moonspell – “Handmade God” e le idealizzazioni

Ritorniamo su suoni e parole, con un post scritto d’urgenza, come tutte le cose che sgorgano veramente naturaliter e non possono aspettare.

Per chi non li conosce, i moonspell sono un gruppo heavy metal portoghese. Come tanti gruppi heavy metal in carriera hanno fatto buoni dischi metal, mediocri dischi metal, e il disco da cui traggo questo pezzo, “Sin/pecado”, che col metal ha poco o nulla a che fare, e che difatti è un capolavoro. Nel corso del disco il poeta-cantante Fernando Ribeiro analizza molti peccati, da punti di vista sempre distanti e originali, in modo mai scontato o banale. Un capolavoro di fusione di musica e testi, con un landscape sonoro che oscilla dal rock alla psichedelia, dal dark wave all’etnico arabo-lusitano.

Perchè un post d’urgenza, e perchè proprio ora? perchè meditando sulle parole di Giada e xlthlx che parlavano di “idealizzazione”, il testo di handmade god (che è sempre stato un testo bello, mi è piaciuto, ma mi vibrava in sottofondo, senza un perchè chiaro e delineato) mi è tornato alla mente. E dopo aver letto quelle parole, e aver vissuto quella circostanza, il testo si è schiuso nella sua completezza. Ho quel disco dal 1998, e ho capito quel testo nel 2010 grazie a una donna che non ho mai neanche visto negli occhi, dopo dodici anni. E guai al primo che si azzarda a pensare che sono un ragazzo intelligente.

HandMade god è un dialogo tra le due parti della stessa persona, che si ritrova a rendersi conto di averne idealizzata una terza (“la vipera che mi è cresciuta nella testa”) per aver creduto nel sogno di un Dio personale, un Dio fatto a mano, un Dio tutto per sè.  Un’analisi in cui la metà emotiva chiede, IMPLORA perdono a quella razionale, tornando nel suo grembo gelido alla fine dei giochi e dei tempi, a disastro concluso, con l’innocenza e lo stupore infantile che caratterizza  ogni amore degno del nome.

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