Spocks’s Beard – “The distance to the sun” e il tendere perpetuo

Andiamo con una nuova escursione musicale nel territorio del metal prog. Il metal “da musicisti per musicisti”, come lo definisco spesso, perchè la sua leziosità e la sua ricercatezza estrema – che cade spesso nel barocchismo – lo rende un genere che solo chi si avvicina ad uno strumento riesce ad apprezzare.

Gli spock’s beard sono un gruppo prog metal statunitense, nato nella prima metà degli anni ’90, caratterizzato da quella visione tipicamente “yankee” del metal prog, fatta di linee relativamente semplici per il genere e un uso marcato delle voci e dei cori, nei quali sono maestri.

Bando alle ciance e passiamo alla musica:

…e la prima, minimorale del pezzo: Quanti di voi avendo ascoltato i primi quindici secondi hanno detto “ehi, ma qui è roba latineggiante alla gipsy king!“. Ecco, riflettete, riflettete, che se liquidate un pezzo da cinque minuti in quindici secondi… avete il grilletto del giudizio troppo facile. Pensate al tempo che impiegate per catalogare una persona, e chiedetevi se non è troppo poco.

“The Distance to the sun” tratta un tema molto semplice: l’insoddisfazione perenne, il tendere perpetuo a un qualcosa di lontano, e applica il tema all’insoddisfazione e alla distanza che crea nei rapporti interpersonali.

Non c’è pace / qui nella mia testa / non c’è modo di vedere / che siamo nati ciechi / verso un luogo e un tempo / in cui potremo sentirci / intimamente uniti / non possiamo sempre vederlo /con i nostri occhi” tocca alla prima strofa evidenziare il tranello nel quale spesso cadiamo. Cadiamo, si, e ci siamo caduti tutti quanti: il pensare che esista sempre uno stato nirvanico di compenetrazione con le persone, solo che non siamo in grado di vederlo o di sentirlo perchè siamo ciechi. E’ un tranello che seduce con la sua umiltà, perchè la “colpa” di non aver trovato questo bengodi affettivo viene data a noi e noi soltanto, ma sempre di tranello si tratta.

Non è un caso che sia il primo refrain a dirci “ma c’è un mondo distante da quello che conosciamo, c’è un mondo che i nostri occhi non mostreranno mai, in cui possiamo essere come una cosa sola“. Siamo caduti nel tranello a piedi uniti, poco da fare… e quasi stona l’aggiungere “e nonostante tutto, più lontani della distanza fino al sole“. Perchè non siamo in grado di accorcene, siamo già persi, senza saperlo.

Forse con troppo amore per la sintesi arriva l’amara conclusione: “ma non serve a niente / non vincerai mai / ti ricacceranno fuori a pedate“, come se ci fosse qualcuno, un “cattivo a priori”, che ci caccia fuori dal nirvana ogni volta che ci arriviamo. L’ultimo stadio delle scuse, pensare che ci sia sempre un grande fratello responsabile dei nostri insuccessi. Non è vero, perchè “non sarai mai soddisfatto / ciò che vuoi è solo il cambiamento / stai giocando una partita che non puoi vincere“.

Eccoci. Caduti, e sporchi, e di fronte ad uno specchio implacabile che ci dice che abbiamo sbagliato. E continuiamo ancora a crederci, perchè “una metà di noi grida al cielo / e una volta che ci è arrivata si chiede come mai ci abbiamo messo tanto / e una volta che siamo arrivati, sapremo cosa siamo diventati“.

 

Non c’è salvezza, nonostante i bei toni positivi del brano. La ricerca di un rapporto “perfetto”, di compenetrazione assoluta, ci lascia lontani da noi stessi, insoddisfatti, estraniati. Ed in perenne ricerca di un qualcosa che non c’è, perdiamo di vista la realtà – incluse le persone che ci girano intorno.